Nella mia bio, qui sul blog, c’è ancora una vecchia frase, scritta nel 2010: “Per mia nonna la mia professione è ancora un mistero, qualcosa di un po’ esotico che ha voluto le appuntassi su un bloc notes così da non potersene dimenticare quando parla con le amiche al telefono”. Era tutto vero (e lo è ancora): le riusciva molto complicato capire che cosa stessi combinando allora, quando piano piano (ma non così tanto in realtà) dall’ufficio stampa “tradizionale” mi spostavo verso una professione digitale.
Mia nonna è una persona complicata, eppure, goffamente, tentava di dare dignità al mio nuovo lavoro. Il percorso che nel mio piccolo ho fatto con lei, noi che svolgiamo dei lavori “digitali” l’abbiamo dovuto fare, in grande, praticamente con tutti.
Oggi, A.D. 2020, ce l’abbiamo (quasi) fatta: occuparsi di digital marketing non è più considerato un vezzo, ma un lavoro vero e proprio. Esistono ruoli aziendali specifici, il mercato cerca liberi professionisti a cui potersi appoggiare, le Università includono la materia nel corso di studi. Sono stati scritti libri ed esiste così una teoria che si riversa in una pratica che non ha mai fine: quel che vale oggi, varrà forse un po’ meno domani quando una nuova piattaforma social avrà visto la luce, registrando milioni di iscrizioni in pochissimo tempo.
Chi fa il mio lavoro, da freelance (come me) o da dipendente, ha la necessità (e, aggiungo, il dovere) di affiancare ore di ricerca e di aggiornamento all’operatività quotidiana: essere sempre sul pezzo non è (o non dovrebbe essere) un accessorio al lavoro che stiamo svolgendo. È la norma. E tutto questo, l’essere operativi, ma contemporaneamente aggiornati su tutto quello che succede al di là del nostro singolo piano editoriale o del progetto che stiamo presentando al nostro cliente, ha un valore che è, anche e soprattutto, economico.
In 10 anni di professione “solo digital” le volte in cui mi sono sentita dire frasi come “non ho ancora mica capito che lavoro fai. Che poi “lavoro”… alla fine stai sempre col telefono in mano…” sono state troppe. Questo non mi ha però mai fatto demordere dallo spiegare, ogni volta, che lavoro effettivamente svolgessi e che, anche se non veniva subito compreso da tutti, questo non fosse sinonimo di una mancata dignità.
La sfida degli ultimi anni è stata quindi quella di far capire al mercato (leggi: alle persone, quindi ai clienti, reali o potenziali) che dare un valore economico alla propria conoscenza, nel nostro ambito, non fosse sbagliato. Il rischio di lavorare con qualcosa che tutti hanno a portata di mano – i social media, per esempio – è, infatti, che tutti pensano di saperne (più di te). La svolta è trovare il modo di far comprendere – a quei tutti qui sopra – che a saperne di più e ad avere più esperienza sei tu. E l’unico modo per farlo è studiare, aggiornarsi, mettere in pratica ciò che ogni giorno si impara e darsi un valore, sempre.
Oggi, A.D. 2020, c’è ancora qualcuno che cerca chi fa il nostro lavoro senza pensare di doverlo ricompensare (vedi qui il mio tweet di qualche giorno fa): si offre esperienza, visibilità, la possibilità di fare curriculum. Senza dover obiettare con le dovute ovvietà (es. il lavoro si paga, se non si paga non può definirsi lavoro e se non è un lavoro non è possibile pretendere alcunché), quel che più è fastidioso – a mio avviso – è che alla nostra professione venga, molto spesso, direttamente associato il concetto di gratitudine. A chi (ci) offre un’opportunità – indipendentemente dal fatto che sia retribuita – si deve essere grati. Chi se ne frega, insomma, se il lavoro è alla base del nostro sistema (ti ricordi la Costituzione?): se lavori lo devi sicuramente a qualcuno (al di fuori di te stesso) al quale devi dire grazie. Va da sé che essere pagato, a volte, può quindi non essere necessario.
L’imbarazzo di dover spiegare che il preventivo esposto per una qualsivoglia collaborazione include il tempo necessario per portarla a termine, la capacità di farlo e l’esperienza accumulata per garantire un’adeguata qualità al servizio richiesto è una sensazione con la quale, ormai, ho fatto pace anni fa.
Posso però dire con un po’ di rammarico, ma anche con un pizzico di orgoglio (quello tipico dell’ostinazione) che negli ultimi dieci anni ho fatto fatica: a far capire, a non lasciar perdere, a stare sempre un passo avanti, a evolvere, a fermarmi quando era il caso, a cambiare rotta quando il vento soffiava per un altro verso, a tenere il punto quando tutto invece sembrava dirmi che svalutarmi fosse l’unica via da percorrere per ritornare in sella.
Ma oggi, A.D. 2020, posso dire di avercela fatta: le persone capiscono che lavoro svolgo e sono riuscita a dargli un valore ben prima che lo facessero gli altri consentendomi così di vendere i miei servizi a un prezzo giusto, mai troppo basso e mai troppo esoso. Sono riconoscibile, ho una buona reputazione e non è necessario specificare che non lavoro gratis. Sono semplicemente – ai miei occhi e quelli degli altri – una persona che lavora, con dignità e tanto impegno. Faccio pagare i miei servizi dal momento 0 in cui ho iniziato a offrirli.
La mia speranza, quindi, è che tutti procedano così, dandosi un valore, sempre. Perché questo è l’unico modo utile per dare autorevolezza e dignità a un mercato che ancora, ahimè, fatica a farlo.