Nata in provincia, ho il bisogno fisico della grande città e di tutto quello che offre. Nello stesso tempo soffro la mancanza del posticino in cui andare spesso, quello dove puoi fare quattro chiacchiere facilmente, perché tanto ti conoscono tutti. Non che a Milano sia impossibile, ma diciamo che è più difficile che altrove.
Ne parlavo il mese scorso con Enne: a noi, che per certi versi siamo molto simili, manca la figura dell’oste non tanto in senso stretto quanto come punto di riferimento nel caos della città. Che sia il gestore di un bar, il proprietario di un ristorante, l’edicolante di fiducia (e continuate poi voi nell’elenco) ci cambierebbe davvero poco.
Quella dell’oste è una professione che un po’ la impari e un po’ ce l’hai dentro, poco da fare. Se andate da Abbottega a Milano troverete alle pareti il decalogo dell’oste perfetto: dieci parole che esprimono un mood raro che pochi ormai hanno e a cui in tanti invece dovrebbero mirare. Amore, Anima, Accoglienza, Parola, Dono, Sorriso, Aggregazione, Gioia, Confessione e Libertà: cose che ti insegnano (se sei fortunato), cose che hai dentro e che sai comunicare, cose che coltivi con passione, pazienza e sacrificio ogni giorno della tua vita.
David Ranucci sulla professione dell’oste e sulla storia della sua famiglia ha scritto un libro. Oste da 100 anni racconta la storia di chi ha fatto delle 10 parole elencate qui sopra un vero e proprio stile di vita. Con i suoi tre ristoranti milanesi, Abbottega, Giulio Pane e Ojo e Osteria Casa Tua e gli altri due Abbottega oltreoceano rispettivamente a NYC e, prestissimo, anche a Miami, David di cose da raccontare ne avrebbe a bizzeffe. Ma piuttosto che concentrarsi sui suoi successi ha preferito raccontare una storia, che sembra quasi una favola, e farci entrare nella vita di chi l’accoglienza l’ha sempre vissuta intensamente.
Perché l’Oste, quando è bravo, condivide. Molto più di un social network.