La casa dove sono cresciuta, a Como, non c’è più da ormai 7 anni. Era bellissima e aveva un grande giardino. La mia camera, prima divisa con mio fratello, e poi ri-diventata solo mia, aveva un letto rosso, un lampadario dello stesso colore, grandi armadi bianchi, tanti libri e moltissimi peluche. Avevo anche uno stereo, rosso, e per un po’ di tempo ho fatto collezione di bottiglie di profumo vuote (questo accadeva quando ancora non usavo sempre lo stesso, ma una volta finito ne compravo un altro, diverso) che avevo allineato su una mensola sopra la scrivania.
In giardino c’era un posto che i miei chiamavano ‘legnaia’ dove una volta mi ricordo di essermi nascosta dopo aver deciso di non tornare a lavorare nel posto in cui la mattina avevo iniziato a fare la cassiera. Poco distante c’era la serra piena di fiori, piante, attrezzi per il giardinaggio e di giochi che ci avevano tenuto compagnia nel corso degli anni.
Quando ho lasciato Como per venire a vivere a Milano sono approdata in un bilocale (ampio per gli standard milanesi) che affacciava sulla ferrovia. Era rumorosissimo e ci ho messo mesi per abituarmi allo sferragliare dei treni. Poi però non riuscivo più ad addormentarmi senza sentire il fischio di un regionale. I muri erano tutti colorati: in soggiorno andavano dal rosso scuro al giallo, in camera erano verde/azzurro, in bagno azzurrissimi e l’ingresso era rosso e arancione. C’erano CD (non miei) dappertutto, DVD e VHS, c’erano tante candele, tanti libri e i muri erano tappezzati di stampe, quadri e puzzle (miei). Spesso le finestre erano aperte per far uscire la puzza di fumo e in bagno avevo appeso delle foto di paesaggi meravigliosi.
Quando è venuto il momento di lasciare quella casa (per scelta mia) ho portato scatoloni e valigie, mi sono chiusa dentro, da sola, e piano piano ho smontato la mia vita. Non pensavo sarei uscita da lì, o perlomeno non da sola. Ho staccato i biglietti pieni di amore che avevo appeso sopra la scrivania, ho tolto vestiti e scarpe dagli armadi e ho portato tutto in macchina. Le cose sono rimaste chiuse lì dentro per un weekend, mentre io mi installavo, pensavo per un solo weekend, in quella che poi sarebbe stata la mia casa per quasi un anno (non prima di aver passato qualche mese in un monolocale di ‘salvataggio’).
Nei mesi seguenti ho molto pianto, di nascosto e nei momenti meno opportuni, pensando alla casa colorata sulla ferrovia. Per settimane l’unico modo che avevo di addormentarmi era far finta che a dormire fossi ancora lì. Poi me ne sono dimenticata e casa è diventata quella in cui avevo disseminato pupazzetti, libri e candele per scongiurare il passaggio di un’altra prima di me e, soprattutto, per convincermi che quello era diventato – anche – il mio posto.
Fra pochi mesi, meno di 3, saranno 4 anni che vivo nella mini-casa. All’inizio, nel 2011, non c’era davvero niente. E quando scrivo niente intendo niente. Un divano letto prestato da un amico, il tavolo da giardino dei miei e… basta (ah sì c’erano anche i tulipani – vedi sotto). Tutto bianco, tutto negli scatoloni: due cuori e una capanna non era un modo di dire, era la verità. In quel periodo ho cominciato a capire cosa volesse dire avere quella sicurezza per cui basta stare con chi ami per sentirti al sicuro, non importa dove, non importa in quali condizioni.
I mobili, tutti rigorosamente Ikea, sono arrivati uno alla volta. Letteralmente. Prima il tavolo, poi le sedie, poi il letto, una cassettiera e due librerie, il divano e infine una scrivania. Guardo le foto della mia mini-casa di qualche anno fa, poi ci entro adesso e sì, è sempre lei, ma ora è davvero mia.
Poco meno di un anno fa la porta della mini-casa si è aperta e ha portato via con sé chi quella casa l’aveva riempita con me. La lasciava svuotata come chi continuava a viverci. La prima cosa che ho fatto, prendendo come scusa il mal di schiena che aveva iniziato ad attanagliarmi proprio allora, è stata cambiare il materasso. Poi ho riempito gli spazi lasciati vuoti e dopo qualche tempo ho tolto anche i quadri. Ho iniziato a disseminarla di cuori, ad allargarmi un po’ (per quel che è possibile fare lì dentro, ovvio) e ogni sera, rientrando, la vedevo sempre più carina.
L’estate scorsa ho pensato di venderla, che lì dentro, benché l’ambiente fosse OK io mica mi ci sentivo a casa. Che ogni volta che ci entravo non vedevo l’ora di uscire e cose così. Poi sono tornata dalle vacanze, ho ridipinto con mio fratello l’armadio a muro, ho sistemato per bene tutte le mie cose e ho iniziato a sentirla, per la prima volta davvero, casa mia.
Ci sto talmente bene adesso io nella mia mini-casa che sono riuscita a farci entrare qualcun altro, per poco e sporadicamente (non pensare alle mie amiche o agli amici che la usano come bed & breakfast quando hanno bisogno di un letto a Milano). E sì è vero, mi sono stranita di questa cosa e credo di esserlo proprio sembrata, stranita, ma era solo perché stavo così bene io lì dentro, da sola, che mi faceva molto piacere starci bene anche non-da-sola.
I miei sogni, comunque, li ambiento sempre tutti nella prima casa, quella col giardino grande che non c’è più. Sogno dettagli precisissimi, le crepe sui serramenti e le venature del marmo dei davanzali, le macchie sulla moquette e perfino le foglie del fico che si vedeva dalla finestra della mia camera.
E sono felice di ricordarmela così bene quella casa, così come sono felice di riuscire a sentirmi a casa ovunque io stia bene, da sola, in coppia o con qualcuno di ‘passaggio’.
Che casa è quel posto che comunque sia fatto ti fa sentire protetto, accolto e tranquillo. Casa è questa cosa qui.