Il divano che abbiamo comprato è l’unico sul quale non ci siamo seduti.
Il tavolo sul quale mangeremo, si spera spesso in compagnia di amici e famiglia, è di legno massiccio, ha quasi 40 anni e ha tenuto compagnia a Niccolò durante i primi anni della sua vita.
Il frigorifero che già campeggia in una cucina ancora vuota è prodotto da un’azienda per cui all’inizio di quest’anno ho fatto una proposta – che poi non è andata a buon fine – per gestirne la comunicazione digital.
Il salotto e l’ingresso, da soli, sono grandi quanto lo ero la mia minicasa di cui ho scritto qualche tempo fa qui e che da qualche settimana si è arrogata il diritto di entrare a far parte dei miei sogni. Dovevo proprio essermici affezionata, proprio io che non mi accorgo mai quando succede.
La casa in cui andremo ad abitare, poi, è una delle prime che abbiamo visto, all’inizio di settembre quando ci siamo messi a cercare. È ampia, luminosa e potrebbe accogliere ben più di due persone anche se io, c’è da dirlo, mi muovo con il mio simpatico carico di moltitudini.
Domenica scorsa la mia famiglia si è interamente mobilitata per trasportare da una casa all’altra i miei scatoloni, sistemare qualcosa in cantina, montare una nuova serratura, lucidare i mobili, pulire le piastrelle. È stato bello, è stato ‘da famiglia’, quella che ho la fortuna di avere e che spero di aver il privilegio di poter replicare.
A modo mio, anzi a modo nostro.
Con il nostro carico di moltitudini.