Un giorno, avevo 15 anni, facevo la spesa con mia mamma in uno dei supermercati di Como. Come spesso accadeva mi ero ‘persa’ nel reparto libri e non so bene per quale motivo, visto che allora ignoravo chi fosse, presi in mano un libro di Gabriel Garcia Marquez. Era Cent’anni di Solitudine, nell’edizione super economica de I Miti di Mondadori.
Decisi di comprarlo anche se la frase sulla quarta di copertina (“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio...”) non mi aveva attirata granché.
Arrivate in cassa, una signora davanti a noi vide il libro e mi disse: “E’ per te? Hai fatto la scelta giusta. Questo è il libro che porterei con me se mi confinassero su un’isola deserta. E’ il libro che non mi stancherei mai di leggere“.
La prima volta l’ho divorato, la seconda l’ho riletto con calma, trovandoci delle sfumature che mi erano sfuggite, la terza l’ho ridivorato. Da allora per Gabo ho sviluppato una specie di ossessione: i suoi libri li ho letti (quasi) tutti: alcuni ancora no, perché non voglio che ‘finiscano’ (un po’ come faccio con Roth).
Gabo mi ha accompagnata in modo compulsivo per un bel pezzettino della mia vita e l’ho abbandonato, ma solo momentaneamente, dopo aver letto Vivere per raccontarla che, dopo Cent’anni, rimane per me il suo libro più bello.
Da ieri non c’è più, ma qui nella mini-casa uno scaffale è dedicato tutto a lui. E mai come in questi giorni una delle sue (tante) celebri frasi “Non piangere perché una cosa finisce, sorridi perché è accaduta” mi è di grandissimo aiuto.
Ciao Gabo e grazie!