La vita al parchetto scorre diversamente da come me l’ero immaginata: nonostante ci provi e ci riprovi i miei ricordi non registrano la mia permanenza su altalene e scivoli se non nei giardinetti di Molveno, il paese di montagna dove da bambina andavo in vacanza con genitori e nonni.
Mi sono convinta che i giardinetti/il parco giochi/il parchetto (ho scoperto che ognuno attribuisce a questo luogo un nome diverso) non fossero di mio gradimento nemmeno in tenera età. Quella adulta ha cementificato questa certezza tanto che quando ci porto Allegra, almeno un paio di volte alla settimana, dentro di me combattono i demoni del “ma chi me lo fa fare” e quelli del “che bello, la mia bambina sarà felice”.
Forse la maternità per me si riassume così: un continuo, pacifico conflitto tra vecchie convinzioni e nuove realtà dove le seconde silenziosamente e con parecchia grazia (che, lo ammetto, spesso mi risulta estranea) sradicano le prime. Mi è sempre piaciuto definirmi: sono fatta così e sono fatta colà, il bianco o il nero ché il grigio insomma mica mi piace molto. L’essere mamma (e definirmi tale mi provoca ancora una certa perplessità) ha sovvertito un po’ le cose: la definizione di me stessa, della mia vita, del mio presente e del mio futuro è in continua evoluzione, un working progress – e questo l’ho capito – che non avrà mai fine.
Cerco di calarmi nei panni di Allegra quando per la prima volta si tocca le orecchie e non il naso, quando le chiedo di farlo. E wow: è fantastico! Esattamente come quando per la prima volta ti riesce di fare quella cosa che hai provato e riprovato tante volte, ma per un verso o per l’altro, non riusciva mai così bene. Ti ricordi cosa hai provato? Ecco, questa è la domanda che mi faccio io da un anno a questa parte ogni volta che registro un progresso: lo guardo con i miei occhi, ma so che non è sufficiente. Quindi lo riguardo, sempre con i miei occhi, ma mettendoci le lenti degli ipotetici occhiali di una bambina di 1, 2, 3 mesi e poi di 10, 11 e 12 e così via. Per stupirmi delle sue emozioni mettendo in campo le mie.
Forse allora per me la maternità è questa cosa qui: non dimenticare la persona che sono (e che sono diventata), non seppellire le mie emozioni, ma essere capace di essere aperta a provarne di nuove. Contemporaneamente.
Non mi sento una persona migliore, ma è vero invece che mi sento molto “empowered“: il confine tra l’esaltazione (ossia quella situazione nella quale “non hai figli, non puoi capire”) e il raziocinio è davvero sottile. È un attimo cadere nel baratro del sentirsi una super donna e nello stesso tempo ci vuole un nanosecondo per avere cuore e testa pronti a comprendere le ragioni di chiunque, anche quando sono improbabili.
Forse allora per me la maternità è usare il potere del quale mi sento investita in maniera intelligente: senza farlo pesare a nessuno, ma mettendolo invece a disposizione di quante più persone possibili.